La patrona dei musicanti

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È il 22 novembre. Oggi si celebra Santa Cecilia. Dicono che sia la protettrice dei musicisti, di chi lavora con la musica. Eh, sì. Perché è rimasto ancora qualcuno che con la musica ci campa e prova a mandare avanti la famiglia. “Maestri” si diceva un tempo, esattamente come gli artigiani. E il termine “musicista”, oggi fin troppo abusato, era riservato a pochissimi. Era più facile sentirsi rispondere: «Faccio il musicante», «faccio la banda da giro».

Ci sono ancora i “maestri”, pochi ma buoni. Sono quelli che sanno suonare uno strumento, sono quelli che hanno studiato come forsennati nelle aule dei conservatori, sono quelli che – quando c’è un concerto importante – non vengono mai ripresi dalle telecamere. Gente con gli strumenti in mano che muove le braccia e l’anima e nessuno se ne accorge. Ma senza di loro non ci sarebbe la musica, senza di loro le meravigliose e intramontabili sinfonie di Beethoven, Mozart, Brahms, i concerti di Bach, l’Opera di Verdi, Puccini, Leoncavallo e chi più ne ha più ne metta, non avrebbe voce.

Normalmente sono i primi ad arrivare, con lo strumento in spalla. Si sistemano il leggio, si scrivono qualche appunto sulle partiture, e parte la musica quasi fossero un juke box. Quando tutto è finito, mettono lo strumento nella custodia, chiudono il leggio e tornano a casa, dalla famiglia. Gli applausi non sono per loro. 

Li vedi vestiti tutti uguali, spesso di nero. Una divisa, quasi una uniforme. Davanti a loro invece, in abbigliamento sgargiante ci sono le star. Gente che probabilmente non sa nemmeno cosa sia uno spartito. Quindicenni o sessantenni cambia poco. Sono loro a muovere il mercato, a “toccare le corde dell’anima” dice qualcuno senza considerare che il canto di gran parte delle cosiddette star, a cappella, avrebbe la stessa melodia di un belato di muflone.

I “maestri” (oggi li chiamano professori d’orchestra) sono gli unici il cui cachet è contrattabile. Che si tratti di prove o di concerto, è uguale: lavorano a giornata, come i braccianti. E chissenefrega se hanno studiato quanto un medico o un ingegnere. Cento euro a giornata, per alcuni, è ben pagato. L’uso dello strumento? È incluso nel prezzo.

E poco importa se solo un pistone della tromba costa quanto tutto il sipario di scena. Anzi, se la tromba non è buona, non ti fanno nemmeno suonare. Violini che costano quanto un appartamento, corni pagati quanto un’automobile. C’è poco da fare: la giornata di un musicante costa quanto la chiamata di un idraulico, o quanto mezza visita di un dermatologo. I migliori anni, spesi a impazzire tra solfeggio, armonia e tecnica valgono meno di quelli spesi sui libri di diritto o di anatomia.

Eppure tutti dicono che bisogna puntare sulla bellezza, sulla cultura.

Mica lo sanno che per i maestri, come dice Amedeo Minghi, «dal conservatorio all’università la bicicletta non va…». Che ne sanno di quei ragazzi che si svegliavano quando ancora non era l’alba per prendere il primo treno e correre in Conservatorio, col panino nello zaino e i libri della scuola o dell’università; che tra una lezione e l’altra, se si creava qualche buco, erano alla continua ricerca di un’aula vuota per poter studiare? Che ne sanno di quelli che, dopo lo studio, andavano a lavorare per potersi comprare lo strumento migliore? Che ne sanno di quante domeniche e quante feste lontano dalle famiglie per andare a suonare chissà dove? E lo sanno che i bandisti dormivano in camerate, allestite nelle scuole? No, non lo sanno. E ne ho la prova. È il ricordo di quella conferenza con un assessore regionale all’istruzione. Si vantava delle «tre università presenti a Bari»: l’Aldo Moro, il Politecnico e l’Accademia delle Belle Arti. Gli feci notare che ne aveva saltata una, il Conservatorio. Ci fu un gelo che valse più di ogni parola.

Tanti auguri ai musicanti, ai maestri e anche ai musicisti. Santa Cecilia si ricorderà di loro, prima o poi.

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Giuseppe Di Bisceglie

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